CESARE BRIANI
STORIA DELLA RAGAZZA VENEZIANA
Primo volume della serie di romanzi
ANNA: STORIE, FATTI E MISFATTI
PROLOGO
1.
Venezia, un afoso sabato di fine Maggio. Appena scesa dal treno vengo assalita da una calura soffocante.
All’arrivo con questo clima, per fortuna abbastanza raro, avverto un’inquietante sensazione d’inarrestabile decadenza dopo i fasti del passato. S’incontrano ovunque le tracce dello splendore profuso a piene mani nei secoli scorsi che oggi si sta sgretolando tra ruggine e muffa.
Si scorgono alcuni lampi all’orizzonte, forse arriverà presto un temporale che spazzerà via quest’aria malsana.
M’avvio verso la casa dei miei genitori, un lugubre palazzo del ‘500 che appartiene da diversi secoli alla mia famiglia, i De Gritti. Sorge in una calle lunga e stretta vicino a Campo Santo Stefano.
La fortuna della mia famiglia ha origini mercantili ma da alcune generazioni ha abbandonato i commerci dedicandosi alle professioni o alla carriera militare. Malgrado le apparenze non siamo ricchi ma appena benestanti, mio padre è pensionato e noi fratelli lavoriamo sodo per mantenerci in modo decoroso.
Oggi sono a Venezia per vedere i miei e le amiche di liceo approfittando degli impegni del mio compagno, Aurelio, che lo trattengono a Bologna, ove abitiamo, per la chiusura della pagina culturale del quotidiano per cui lavora.
Io, Anna, da parecchio tempo non vivo più a Venezia, a 31 anni sono già una manager di successo, ma su questo aspetto mi dilungherò più avanti, così come sulla mia storia sentimentale che in gioventù ha messo a dura prova la mia tenuta emotiva, con effetti che condizionano ancor oggi i miei comportamenti.
Tra tutti i ritratti dei nostri antenati, appesi nelle sale e nei corridoi della casa veneziana, sono particolarmente attratta da quello di una giovane donna bionda ritratta nelle campagne della provincia veneziana mentre tiene un cavallo per le briglie, abbigliata con una foggia molto particolare: un completo gonna-pantalone molto elegante, evidentemente adatto a cavalcare, con un cappellaccio sformato a larghe tese ornato da lunghe penne di fagiano. Con la mano destra tiene uno schioppo ad avancarica grande quasi quanto lei stessa mentre alcuni cani da caccia sono sdraiati ai suoi piedi. Il cavallo nero ha sulla fronte uno strano segno bianco a forma di falce di luna.
La figura della ragazza è contornata da un lieve chiarore, quasi lunare, mentre le parti esterne del quadro sono più in ombra.
Nell’angolo sinistro è riportata la data, A.D. 1719, il nome della persona ritratta, Lucrezia De Gritti, quello della cavalla, Lunatica, e quello dell’autore, Paolo Vicentino, accompagnato dall’inusuale scritta latina “Magno cum gaudio et cum aura pixit.” Dipinse con grande gioia e con l’aura. Chissà poi cosa sarà questa “aura” che ha voluto rappresentare attorno alla figura della ragazza!
Assomiglio alla mia antenata, così dicono, per i tratti ed i colori del volto, degli occhi e dei capelli e per l’espressione ironica, sfrontata, affabile ma decisa che il pittore è riuscito a cogliere con notevole maestria. La caccia non è proprio la mia passione, anzi se fosse per me l’abolirei, ci sono oggi passatempi e sport anche più appassionanti e divertenti senza implicare l’uccisione di alcun animale. Ma quelli di Lucrezia erano altri tempi, forse offrivano meno occasioni di svago.
Questo ritratto ha qualcosa di misterioso, lo sguardo di Lucrezia ti segue da qualunque lato l’osservi, come se ti vedesse veramente. Sarà una mia suggestione, sembra che abbia una vita interiore, l’espressione cambia a seconda dell’umore e della personalità di chi lo guarda, può essere indifferente, amorevole, ironica, cinica, caustica, irata, divertita, curiosa e mille altre cose ancora.
Dev’essere stata una persona estremamente simpatica ed attraente, il suo sguardo è particolarmente sensuale, aperto e coinvolgente, di sicuro più del mio! E’ una delle nostre poche antenate di cui si sappia qualcosa: ha avuto una vita molto avventurosa, sembra che si sia imbarcata in giovane età su una nave di proprietà della nostra famiglia che trafficava con il Medio Oriente e pare che dopo qualche anno sia scomparsa ad Istanbul. Qualche mercante d’allora affermava che si fosse salvata da un naufragio e che fosse vissuta a lungo dopo aver fatto fortuna nel commercio di spezie.
Mi sembra una storia molto misteriosa, si sarebbero avute notizie più precise, sembra quasi messa in giro ad arte per nascondere altre verità più o meno imbarazzanti. Ritengo che in ogni caso se la sia cavata bene, avrà sicuramente affascinato chiunque l’avesse conosciuta.
Mi piacerebbe saperne di più, uno di questi giorni sentirò Alvise Gradenigo, il vecchio complimentoso professore dall’eloquio forbito, massimo esperto di storia veneziana, forse scartabellando nel proprio archivio imponente riuscirà a sapere qualcosa di più attendibile sulla storia di Lucrezia.
2.
Ceno con i miei, in serata esco con alcune compagne di Liceo, facciamo sin da allora allegre rimpatriate basate su ricordi, pettegolezzi, ciacole e bevute che hanno il pregio di rilassarmi e farmi fare dormite memorabili, come mi accade di rado per i pensieri di lavoro e il fastidioso russare di Aurelio, devo spesso rifilargli decisi calci alle gambe per farlo smettere.
La mattina successiva mi alzo molto presto, come d’abitudine, gironzolo per casa, è sempre un ambiente misterioso, stimola la fantasia, chissà quanti segreti secolari custodisce ancora, forse mappe del tesoro celate da pirati, scheletri mummificati di mogli fedifraghe murate vive, feti concepiti in seguito a relazioni inconfessabili, fatti abortire da una lercia mammana e nascosti in qualche pertugio del muro, chissà cos’altro, o forse nulla di tutte queste orrende fantasie partorite dalla mia fervida immaginazione tendente al romantico – romanzesco.
Mi soffermo ad osservare il ritratto di Lucrezia, ha un magnetismo che m’attrae irresistibilmente, sembra di rivedermi in uno specchio deformato dal tempo. Questa mattina ha un’espressione particolarmente ironica e divertita, sembra sul punto di volermi confidare un pettegolezzo succulento e che attenda solo un mio cenno d’assenso per iniziare il racconto con la verve che sicuramente deve averla contraddistinta.
E’ a grandezza naturale ed appeso piuttosto in alto, non ho mai osservato bene la parte superiore del dipinto che contorna l’immagine di Lucrezia. Oggi invece mi sento spinta a scrutarlo con attenzione, chissà poi perché proprio oggi. Rimango sorpresa quando mi sembra d’intravvedere nell’angolo destro un piccolo ghirigoro che non avevo mai notato.
Prendo una scaletta, vi salgo e sono in grado di osservarlo bene. E’ un’aggiunta piuttosto grossolana, fatta da un dilettante, non ha nulla a che vedere con l’eleganza del resto del quadro, rappresenta una specie di pergamena con alcune lettere e numeri:
ADG
SDB 5N 4E
Molto strano, chissà cosa vorrà dire? Vado a prendere lo smartphone, fotografo la pergamena, esamino la restante parte del dipinto che rappresenta la campagna veneta, non noto ulteriori stranezze.
Mi siedo in poltrona di fronte alla mia antenata, mi guarda con aria più ironica del solito, non so perché ma oggi sembra ansiosa, mi vede alle prese con una sciarada piuttosto complessa ma sa già che non demorderò finché non l’avrò risolta.
Rapidamente passo in rassegna con voce sommessa le diverse ipotesi, rivolgendomi direttamente a lei, forse mi darà qualche aiuto: “Lucrezia, escludiamo che la pergamena sia stata opera del pittore, è troppo grossolana. Quindi qualcun altro, ma sicuramente un membro della nostra famiglia che poteva aver accesso al quadro, forse la scritta ADG voleva dire proprio questo, forse un Antonio De Gritti o un Asdrubale, Anastasio o una Anna, Antonietta, Assunta? Me lo confermi? Ok, andiamo avanti.
I numeri affiancati da lettere sono sicuramente indicazioni di posizione, a Nord e ad Est, ma i numeri cosa indicheranno? Metri, passi, chilometri o qualche altra unità di misura? E quale sarà la località e il punto di partenza? SDB non mi dice nulla, forse è il nome di qualche paese vicino ma non mi viene in mente nessuna località che abbia queste iniziali. Una chiesa? San ….. Domenico … Battista? Santa … Dorotea …. Befana? San …. Diomede …. Bruttino? Non credo proprio. Siamo d’accordo nello scartare questa ipotesi? Ok.
La scritta può avere diverse spiegazioni: può essere il promemoria segreto di qualcuno che temeva di non ricordarlo esattamente oppure un messaggio altrettanto segreto per i posteri. Ma perché poi? E cosa potrà nascondere? Mi prendi in giro, va bene, aspetta e vedrai, antenata dispettosa!”
Mi alzo dalla poltrona, guardo di nuovo da vicino il disegno della pergamena, giro per casa, salgo ad ispezionare la soffitta, niente, nessun indizio.
Scendo a bere un caffè e comprare il giornale, buio assoluto, non so proprio dove sbattere la testa. Do un‘occhiata ai titoli, nulla di interessante, non riesco a concentrarmi, sono troppo presa dal mistero da risolvere.
Ad un tratto un’illuminazione: sicuramente SDB si riferisce ad una stanza della casa, è il posto più logico in cui cercare. Rientro a casa, riprendo il giro domestico, in sala da pranzo SDP mio padre e mio fratello stanno confabulando, trascuro le camere da letto CDL e i bagni BAG, i corridoi COR, il salotto SAL è deserto, entro nel salone di rappresentanza SDR, la vecchia enorme sala da ballo che nei secoli deve averne viste di tutti i colori ………… porcoggiuda Sala Da Ballo, SDB, ecco la chiave!!!
Corro a vedere la foto della pergamena sullo smartphone, leggo le coordinate, ma da dove devo partire? Beh, sicuramente dall’ingresso, non vedo altra soluzione, anche perché è situato nella parete sud della sala da ballo. Prendo un doppio metro di legno, di quelli da muratore, misuro le distanze di 5 metri verso Nord e 4 metri verso Est ma non noto nessun indizio di stranezze, neppure battendo le nocche sul pavimento per individuare eventuali cavità. Proviamo con i passi: nessun risultato. Mi sembra che a quei tempi si usassero le ‘braccia’ come unità di misura, poco meno di 70 centimetri, macché, niente da fare anche con quelle.
Mi siedo per terra sconsolata ad osservare il pavimento, un bell’esempio di palladiana multicolore senza segni di discontinuità. Ma, un momento, non è vero che è un continuo, osservando bene mi accorgo che è formato da piastrelle di circa 40 centimetri con giunture che sono state sapientemente mimetizzate da artigiani provetti. Mi alzo di scatto, conto le cinque piastrelle verso nord e le quattro verso est, mi soffermo a guardare per terra e noto che la piastrella sotto di me in qualche punto è un poco staccata dalle altre. Mi abbasso, batto con le nocche, il suono è molto diverso dalle circostanti, ci siamo!
Il cuore mi esplode nel petto per l’emozione, corro senza fiato a prendere un cacciavite, dopo diversi tentativi riesco faticosamente ad alzare un lato della piastrella, la sollevo, appare un’ampia cavità in cui giace una spessa busta di pergamena, ben conservata: non ci sono state infiltrazioni d’acqua o di polvere durante i secoli trascorsi. La prendo con cautela, la poso per terra, rimetto a posto la piastrella cercando di confondere le fessure, lancio un’occhiata trionfante a Lucrezia che sorride soddisfatta, me ne vado di nascosto in bagno dove posso avere un poco di privacy, con il cuore che va a mille!
Voglio sapere cosa contiene la busta prima di parlarne con chiunque altro, non so perché ma lo percepisco come un messaggio segreto che Lucrezia ha voluto mandare solo a me.
Apro con cautela la busta, appare una lettera con la scritta superiore vergata in maiuscole con una calligrafia precisa, quasi pedante, sicuramente maschile:
PER I POSTERI, CONFIDANDO CHE CI GIUDICHINO CON BENEVOLENZA.
La lettera accompagna un ponderoso fascicolo tenuto assieme da un nastro rosso, con il frontespizio impreziosito da una elegante cornice multicolore con scritte in una lingua orientale, forse arabo o turco. Riporta un titolo che mi fa sobbalzare:
MEMORIE DI LUCREZIA DE GRITTI
Donna di piacere?
Costantinopoli, addì Domenica 30 Maggio A.D. 1773
Apro con cautela la lettera accompagnatoria, sono curiosa da morire. La riporto con un linguaggio più comprensibile ai nostri giorni, eliminando alcune espressioni settecentesche ormai desuete.
Caro postero,
sono Alvise De Gritti, ti scrivo dal 1797. Forse puoi ancora vedere il mio ritratto, sono quel tizio indaffarato seduto alla scrivania tra rotoli di stoffe colorate. In realtà ero molto più bello di così, ma accontentiamoci, la prossima volta (dubito che ci sarà, ma non si sa mai) incaricherò un pittore più bravo e costoso, magari il Tiepolo, anche se la mia parsimonia, per non dire tirchieria, prenderà il sopravvento come sempre. E’ un difetto che mi ha accompagnato per tutta la vita, impedendomi di metter su famiglia, facendomi invece preferire frequenti scappatelle con una meretrice di origini greche, abbastanza scarsa di pretese economiche vista l’assiduità delle mie visite, l’aspetto non eccessivamente coinvolgente e l’età via via più elevata. Tuttavia a posteriori posso dire che con Filippa (questo è il suo nome) è nata una familiarità che forse non si può chiamare amore, anche se poco ci manca.
C’è una spiegazione alla mia tirchieria: devi sapere che qualche decennio fa la nostra famiglia ha attraversato un periodo di grandi difficoltà economiche, e vera fame, che si è risolto in modo fortunoso, come potrai leggere nelle memorie di Lucrezia, la sorella di mio padre. Questo evento mi è stato narrato ripetutamente a tinte fosche sin dalla prima infanzia e mi ha inculcato l’idea, forse malsana, che il denaro sia l’unico valore essenziale della vita, a scapito dell’amore di una moglie, di figli e nipoti, di correttezza, onestà, religione e altri valori fondanti della nostra società. Quale è la verità? Non lo so e non lo saprò mai, sono ormai anziano e piuttosto acciaccato, presto mi porterò nella tomba questo interrogativo. Forse nell’aldilà il Dio dei cristiani, dei mussulmani, degli ebrei, degli indù o degli ottentotti potrà spiegarmelo, anche se non lo credo. Staremo a vedere, non si sa mai.
I nostri sono anni turbolenti, i francesi di Napoleone si stanno avvicinando a Venezia e non sappiamo bene cosa aspettarci: forse la Libertè, Egalitè, Fraternitè che sbandierano ai quattro venti o invece qualche forma di dittatura che metterà fine alla nostra secolare Repubblica, tutto sommato abbastanza democratica e tollerante? Una cosa però è certa, ovunque vadano prelevano e portano a Parigi tutte le opere d’arte d’un certo pregio, senza chiedere il permesso. Ho quindi deciso di nascondere in un fienile di campagna tutti i nostri arazzi, l’argenteria e i quadri di valore, compreso quello di Lucrezia che sicuramente hai visto, altrimenti non leggeresti questa lettera.
Mi scuso per lo stile approssimativo del disegno che ho fatto sul quadro, la pergamena, ma tieni conto che sono un mercante e non un pittore: comunque mi complimento per la tua perspicacia nel ritrovare la lettera e le memorie di Lucrezia, qui a Venezia le ho lette solo io.
Ho ritenuto opportuno nascondere anch’esse, contengono alcuni aspetti piuttosto discutibili della sua vita, darebbero adito a chiacchere e pettegolezzi a non finire, forse i tuoi tempi saranno più aperti e comunque meno coinvolti in queste vicende. Anche se per la verità in questi anni a Venezia se ne vedono e sentono di tutti i colori, nessuno si scandalizza più di nulla!
Sono piuttosto malandato di salute, non so se riuscirò a recuperare il manoscritto dopo che i francesi se ne saranno andati o se me ne andrò prima io all’altro mondo.
Al termine delle memorie di Lucrezia ho inserito qualche pagina scritta da Fatima, la sua socia in affari, ha completato la sua storia quando è morta. Ho conosciuto Fatima a fondo, diciamo così per decenza. Malgrado l’età molto avanzata era ancora una splendida donna, assai affascinante, molto più di Filippa, la mia amica veneziana. Mi ha fatto avere il manoscritto in occasione di una mia visita di lavoro a Costantinopoli in cui ho approfittato per far visita ad una “casa di piacere” molto rinomata (ed a ragione, come ho potuto personalmente sperimentare) ma altrettanto costosa (semel in anno licet insanire, crepi l’avarizia), la sua: una volta sopita l’urgenza dei sensi grazie alle sue arti amatorie che mi hanno fatto provare emozioni eccelse con pratiche inusitate e insospettabili, sulle quali per decenza non mi dilungo, chiacchierando amabilmente tra le coltri è venuta a sapere della mia parentela con Lucrezia. In letto di morte le aveva promesso di far avere alla famiglia le sue Memorie, che almeno si sapesse la verità sulla sua vita sgombrando il campo da tutte le chiacchiere senza fondamento che aveva provocato la sua scomparsa improvvisa da Venezia. Perciò me le ha consegnate pregandomi di custodirle con attenzione e di farne un buon uso, secondo le volontà della defunta.
Ti auguro buona lettura, è comunque una vicenda interessante. Fanne anche tu buon uso, secondo quanto riterrai opportuno; se stai leggendo questa lettera sei sicuramente una persona molto intelligente che troverà il modo di valorizzarla.
Come si conclude una lettera così, forse con Auguri di Buona Vita?
Alvise De Gritti, mercante di stoffe pregiate in Venezia.
Sono rosa dalla curiosità di leggere in pace il manoscritto, vado a vedere in corridoio il ritratto di Alvise: non l’avevo mai notato, è effettivamente bruttino e insignificante, lo circondano rotoli di sete e broccati, sul tavolo da lavoro è posata una borsa da cui escono alcuni zecchini d’oro, sullo sfondo scuro s’intravvede la fisionomia d’una vecchia laida e sdentata dallo sguardo lascivo, sicuramente Filippa.
Guardo Lucrezia, ha un mezzo sorriso di trionfo, le mando un bacio, prendo la borsa e v’infilo il manoscritto, esco gridando a mio padre e mio fratello che non torno per pranzo, scappo verso Campo Santo Stefano.
Durante il percorso qualche negoziante che mi conosce sin da bambina mi saluta con simpatia: “Anna, sei sempre più bella! Per fortuna qualche volta ti fai vedere e ci tiri su di morale! Con tute le scorfane bianche, nere, gialle e rosse che ne toca sorbirse tuti i giorni!” Il simpatico dialetto veneziano emerge immancabilmente nei discorsi, in qualunque ambiente e situazione, per enfatizzare i concetti salienti anche qualora l’inizio della frase fosse stato in italiano. D’altra parte non può essere altrimenti visto che è stato per molti secoli la lingua della Repubblica Veneziana.
Strada facendo rifletto sul fatto che la vecchia casa di Venezia è sempre una fonte inesauribile di scoperte straordinarie. Molti anni fa ho rinvenuto in soffitta, nel fondo del cassetto ‘segreto’ d’un vecchio cassettone sfondato, un paio di tessere da mosaico d’un paio di centimetri, una di color rosa con il disegno del viso di una donna, una azzurra con quello di un uomo, molto ben fatte. Da allora tengo nel portafoglio quella con il viso di donna, la considero il mio portafortuna, ed ho regalato a mio fratello quella con il viso d’uomo.
Vi era inoltre una bambola di pezza mezza mangiata dalle tarme, vestita come una suorina: era probabilmente quella di una bambina che qualche secolo fa era stata destinata sin da giovane alla vita monastica e la bambola in teoria avrebbe dovuto aiutarla ad abituarsi all’idea della vita in convento che l’avrebbe aspettata. Che tristezza! L’ho immediatamente gettata nel fuoco del camino per cercare di dimenticare lei e la sua sfortunata padroncina ma talvolta, quando sono particolarmente triste, mi tormenta ancora la deprimente storia che mi sono figurata. Forse sono pessimista, potrebbe invece essere accaduto il contrario, che la vita monastica fosse stata una sua libera scelta e ne fosse stata completamente appagata. Tra i quadri dei nostri avi ve n’è uno d’una suora anziana dall’espressione affabile e serena, speriamo che sia il suo.
La casa costa uno sproposito in tasse e manutenzioni, sarebbe sensato venderlo, ammesso che si trovasse qualcuno che pagasse un prezzo decente e si sobbarcasse le enormi spese di restauro e le defatiganti grane burocratiche. Ma sarebbe veramente un peccato, per ora andiamo avanti così, poi si vedrà.
Arrivo a destinazione, m’infilo nel confortevole tavolino d’angolo d’un caffè, spengo il cellulare, ordino cappuccino e brioche, comincio a leggere avidamente il manoscritto di Lucrezia isolandomi dal mondo esterno e perdendo la cognizione del tempo.
Anche in questo caso traduco le sue Memorie in un linguaggio più comprensibile ai nostri giorni, modificando alcune espressioni tipiche di quei tempi, oggi fuori uso.
LE MEMORIE DI LUCREZIA
3.
Mia cara lontanissima discendente,
una vecchia indovina d’origini greche, Melissa, pochi giorni or sono ha pronosticato che fra qualche secolo le mie memorie, dopo un lungo oblio, verranno ritrovate a Venezia da una ragazza della mia famiglia che m’assomiglierà molto, sia d’aspetto che di carattere. Ciò avverrà in una domenica di Maggio come quella di oggi.
M’ha predetto che riuscirò a comunicare con lei con le espressioni del viso nel mio ritratto giovanile, quello in campagna con i cani e il cavallo, anche se in un modo molto criptico che solo lei potrà pensare di comprendere e interpretare. Forse sarà solo suggestione o forse la verità, chi lo potrà dire se non tu stessa?
Mi ha anche detto di aver fatto in modo che appena avrai letto il manoscritto non potrai esimerti dal venire a Costantinopoli, o Istanbul come la chiamano oggi, e qui troverai diverse tracce del racconto che sto per farti, come predisposto infallibilmente da Melissa.
Non so se queste predizioni si avvereranno ma posso assicurarti che Melissa m’ha sempre aiutata nelle situazioni critiche con pronostici perfettamente realizzati, saggi consigli e pozioni molto efficaci, sia per il corpo che per il cuore e la mente. Se fosse vissuta a Venezia sarebbe finita da tempo sul rogo con l’accusa di stregoneria, ma qui a Costantinopoli sono molto più tolleranti e meno intrisi dal fanatismo religioso proprio di molti cristiani, almeno quelli dei miei tempi, non so se anche dei tuoi.
E’ domenica mattina, immagino le dame eleganti e le provocanti cortigiane che si avviano alla Messa Grande in San Marco, quella delle undici, accompagnate da mariti e cicisbei, tutti agghindati e sfarzosi negli abiti multicolori propri della moda d’oggi. Mi ricordano i disegni di alcuni uccelli tropicali, i maschi con penne variopinte che si pavoneggiano dinnanzi alle femmine per conquistarle, anche se sono quasi sempre d’aspetto molto più scialbo e dimesso, chissà cosa ci troveranno! Tra gli uomini e le donne d’oggi invece non c’è molta differenza, sono tutti agghindati come i maschi dei pavoni.
Poi tutti intenti a seguire distrattamente la Messa, lanciando spesso occhiate laterali verso amanti attuali e potenziali, con pensieri assai poco pii. All’uscita si cercano con gli occhi per tentare di dar corso ai pensieri licenziosi, cercando di avvicinare l’oggetto del desiderio. E quindi una puntata nei caffè della piazza ove alcuni bicchieri di vino, le chiacchiere e la confusione allentano i freni e l’attenzione di mogli e mariti consentendo di prendere accordi segreti per la concretizzazione delle promesse d’amore.
Forse dirai che sono cinica, ma t’assicuro che dopo il mio racconto capirai che ho una certa esperienza e mi sbaglio molto di rado.
Spero che tu non sia una pudica verginella - Melissa me l’ha escluso -, non vorrei mai che le mie memorie, in parte concernenti i rapporti amorosi nelle loro diverse manifestazioni, soprattutto quelle fisiche, offendessero le tue caste orecchie. Se Melissa si fosse sbagliata chiudi subito il manoscritto e rileggilo tra qualche anno quando avrai fatto qualche significativa esperienza.
4.
Voglio narrarti le vicende significative della mia vita, anzi delle mie diverse vite, ben sei, degli insegnamenti che ne sono derivati e degli errori che ho fatto, sperando che anche tu non debba ripeterli. Ma si sa, ognuno pensa di essere diverso da chi lo ha preceduto, non c’è insegnamento che tenga, ciascuno vuole testardamente rincorrere il proprio destino e ricadere nei medesimi errori già commessi dagli avi o in altri del tutto inediti.
Posso però affermare con orgoglio che il mio percorso di vita, seppur tortuoso ed a tratti assai discutibile, mi ha portato a costruire qualcosa di utile per gli altri, di cui sono molto orgogliosa. Proprio le vicende meno nobili della mia esistenza sono quelle che mi hanno consentito di realizzarlo, senza di esse non vi sarei mai riuscita.
Ma allora, mi chiedo, è preferibile una vita piatta ed onesta, senza peccato, che attraversi questo mondo senza lasciare alcuna traccia di sé o va invece considerata positivamente anche un’esistenza a tratti disonesta che però lasci un‘eredità importante ai contemporanei ed ai posteri? Credo che se interpellassimo cento persone avremmo cento opinioni diverse, con tutti i distinguo possibili e immaginabili, ma la mia opinione è evidente, non so quale sarà la tua dopo aver letto le mie memorie.
Ho avuto una vita decisamente anomala rispetto a quella delle mie coetanee, sin da giovane sono stata caratterizzata dallo spirito d’indipendenza e noncuranza delle convenzioni che hanno suscitato notevole scalpore tra i miei contemporanei.
Sono nata a Venezia nel 1702, un anno dopo mio fratello Giorgio, in una famiglia di agiati mercanti. Erano anche armatori di una nave mercantile difesa da qualche cannone, non si sapeva mai cosa poteva capitare in giro per il mondo.
In casa si parlava l’italiano e spesso il francese, era necessario conoscerli bene per i commerci, anche se con i servi e qualche amico intimo si scivolava sul veneziano.
Venezia a quei tempi non era un posticino di persone tutte casa e chiesa: era anzi famosa per le cortigiane che facevano perdere la testa a tutta l’Europa maschile e per le case da gioco più o meno autorizzate in cui ogni sera forti patrimoni cambiavano di proprietà. Ma vi convivevano felicemente diversi mondi, peccaminosi o bigotti, fatti di cattolici, protestanti, mussulmani ed ebrei, con frequenti contaminazioni reciproche che non facevano che accrescere la vivacità, la cultura ed il fascino della città.
Sin dall’infanzia sono stata condizionata dall’aspetto esteriore, i miei genitori e parenti non facevano altro che ripetermi quanto fossi bella e attraente, fino a convincermi di possedere davvero una dote di fascino eccezionale, con effetti imbarazzanti sui miei comportamenti, come potrai leggere più avanti. Ma proprio tale assurda convinzione mi ha consentito di dedicare l’ultima parte della mia vita alla realizzazione d’un progetto ambizioso, d’indubbia utilità, che ha dato significato alla mia assai discutibile esistenza precedente.
Della mia infanzia fino ai dieci anni c’è poco da dire, come tutti i bambini giocavo molte ore al giorno nelle calli e nei campielli con gli altri senza distinzioni di classe, sesso e religione. C’erano figli di nobili, mercanti, negozianti, prestasoldi, artigiani e gondolieri in una mescolanza democratica che metteva tutti allo stesso livello, essenziale per la formazione del carattere.
Non so che giochi avrai fatto tu alla mia età, ma allora andavano per la maggiore la palla, la corda, il nascondino, la mosca cieca, le gare sui canali disegnati con il gesso sul selciato: lanciavamo con il dito medio e il pollice le tessere d’un mosaico, rubate in chiesa, che rappresentavano i vogatori campioni dell’epoca che gareggiavano nelle competizioni in Laguna che avevano il culmine nella festa del Redentore. Un pittore miniaturista, che frequentava spesso per lavoro casa nostra, aveva dipinto sulle tessere le immagini dei nostri campioni.
La mia tessera rosa rappresentava Maria, di soprannome “Polatina”, una mastodontica campionessa d’origine istriana che vendeva pollame al mercato di Rialto, brusca ma simpatica. Mi aveva preso in simpatia, ogni volta che accompagnavo a fare la spesa la Giuseppina, una nostra domestica, mi afferrava, mi lanciava per aria e mi issava come un fuscello sulle spalle possenti da cui potevo dominare tutto il mercato. Competeva con successo nella voga con i maschi battendoli di sovente. Un accordo ferreo, anche se verbale e segreto (di Pulcinella), prevedeva che si sarebbe concessa al vincitore, che lui fosse volente o nolente. Dicevano che spesso facesse vincere qualche gondoliere che le piaceva, tagliando la strada agli avversari, o che al contrario molti partecipanti cercassero di evitare la vittoria per non essere costretti a giacere con lei, con la fama di ammazzacristiani che si ritrovava. In ogni caso il vincitore, se fidanzato o ammogliato, incorreva nelle ire della compagna, dibattuta tra gelosia e brama del ricco premio in natura, costituito da pollame, carne, salumi, mais e molti altri cibi che potevano dare un sostanziale sostentamento alla famiglia per diverso tempo.
Naturalmente, alla fine di ogni gara, effettivamente o apparentemente truccata, si accendevano risse tanto accese quanto giocose e incruente tra gli spettatori-scommettitori che finivano inevitabilmente a bagno nel bacino di San Marco e poi abbracciati in un bacaro a bere un venefico vinaccio, ridere e cantare canzonacce sconce sulle strofe inneggianti alle doti atletiche e sessuali di Maria Polatina.
Mio fratello invece aveva la tessera azzurra con l’immagine di Bepi “Osso”, un gondoliere beccamorto molto richiesto per trasportare – velocemente - i defunti nell’ultimo viaggio al cimitero sull’isola di San Michele.
Purtroppo oltre al gioco c’era lo studio, sin dai cinque anni io e mio fratello, che allora di anni ne aveva sei, siamo stati afflitti da precettori d’italiano, letteratura, filosofia, francese, matematica, scienze, arte, musica e canto (mio fratello si è rifiutato di studiare le ultime due) che mi hanno tormentata per diverse ore al giorno mentre sentivo salire dalla strada il chiasso e le risate degli amici, poveri in canna, che crescevano liberi nella beata ignoranza, come li invidiavo!
M’affascinavano le lezioni di lingua turca, secondo mio padre essenziale per i commerci di famiglia con l’Impero Ottomano, almeno nei periodi di pace. Le teneva una signora turca che, secondo le dicerie, un capitano di marina aveva raccattato negli angiporti di Costantinopoli e sposato. Dicevano che avesse fatto la prostituta, non so se fosse vero ma devo assicurarti che era molto simpatica, altera, bellissima, oltre che portata naturalmente per l’insegnamento, tanto che negli anni arrivai a comprenderlo e parlarlo correntemente. Mi affascinavano i tatuaggi multicolori che le ricoprivano i piedi e le braccia, raffiguranti immagini delle sue terre, deserti, foreste e animali esotici che contribuivano a farmi sentir parte del suo mondo e della sua lingua intrigante.
A giugno era consuetudine fare alcune gite al Lido, una lunga striscia deserta di sabbia che divide la Laguna dal mare, frequentabile solo di giorno poiché di notte è infestata da voraci zanzare portatrici di orrende malattie. Le corse sulla sabbia coperta da grandi conchiglie, i bagni nel mare cristallino che nulla aveva a che vedere con il colore verdastro della nostra laguna, il sole che bruciava la pelle bianca di sale, sono rimasti un ricordo indelebile di perfezione e immersione nella natura che ogni volta mi commuove. I bagni di mare erano interminabili, vicino a riva pescavamo vongole e cappelunghe immergendoci fino a toccare il fondo con la testa per riconosce i fori che ne indicavano la presenza sotto la sabbia. Se invece il mare era burrascoso ci divertivamo ancor di più nel saltare le onde o tuffandoci al di sotto, come vedevamo fare ai delfini che quasi sempre in tali occasioni arrivavano per giocare con noi con i marosi, a poca distanza dalla spiaggia.
Alzavamo una enorme tenda per ripararci dal sole, immaginavo d’essere un beduino del deserto legandomi un asciugamano sulla testa a mo’ di turbante. Lì sotto consumavamo il pranzo di carne salata, pesce grigliato e dolci, per poi riposarci qualche ora prima che ci fosse concesso di fare di nuovo il bagno prima della partenza.
D’estate finalmente gli studi terminavano, andavamo in villeggiatura in campagna in una villa sul Brenta, il fiume che collega Padova alla Laguna, la raggiungevamo partendo dal canale sotto casa con un elegante e spazioso bragozzo. Inalberava una vela immensa, scandalosa ma divertente, dipinta con un fondo di cielo stellato ed al centro l’immagine di San Callisto orante, un bel ragazzone con la foglia di fico, inginocchiato in preghiera. E’ stato ritratto preda delle tentazioni che ruotavano vorticose sopra la sua testona barbuta, costituite da donne e uomini nudi ammiccanti, anfore di vino, tavolate riccamente imbandite, sacchetti rigurgitanti di monete d’oro. Era un’immagine malamente copiata dal quadro di un imbrattatele di quarta categoria, Paolo Vicentino, di cui ti parlerò più avanti. Già l’originale era orrendo, figurati la scopiazzatura sulla nostra vela! Con le amiche stavamo distese sul ponte ad osservarla affascinate dai movimenti provocati dal mutare del vento che conferivano alle “tentazioni” una sorprendente, realistica ed erotica fisicità. Stranamente le fattezze del Santo e dei “tentatori” mi risultavano famigliari, il Santo mi ricordava un signore molto elegante che abitava dalle parti di Rialto e le “tentazioni” alcuni signori e signore che vedevo spesso passeggiare assieme alle Mercerie o in San Marco, sempre presi da allegri e vivaci conversari.
Oltre a noi famigliari ed ai servitori v’erano spesso amici di famiglia e qualche bambina della mia età che invitavo per non annoiarmi. In quell’anno, fatidico per la mia formazione, venne con me Silvana, la figlia di Bepi “Osso”, il gondoliere beccamorto, una bambina molto sveglia per la sua età; le facevo per gioco da precettrice ma, intelligente com’era, imparò in breve a leggere, scrivere, far di conto, il che non è un vantaggio trascurabile per una persona del popolo.
I preparativi erano frenetici, andavano saldati i fornitori, riscossi i crediti, si dovevano coprire i mobili di casa con lenzuola per proteggerli dalla polvere, preparare biancheria ed indumenti tanto da riempire dieci bauli, fare scorta di vivande, spezie, unguenti e medicamenti che non erano reperibili in campagna.
La navigazione in acque tranquille durava per tutto l’arco della giornata, in Laguna o nel placido fiume che scorreva lentissimo.
La partenza era una festa, avveniva all’alba navigando a vela sul Canal Grande e successivamente in piena Laguna, in seguito facendoci trascinare contro corrente da pariglie di buoi arrancanti lungo la sponda del fiume. Le chiacchiere, gli scherzi, i motteggi indotti dalla vela scandalosa, il canto, la musica, il caffè e gli spuntini facevano del viaggio un momento magico. Peccato che si svolgesse solo due volte l’anno, all’andata a fine giugno ed al ritorno a inizio settembre, in tempo per l’avvio della stagione mondana.
La campagna e la corte dei contadini erano luoghi interessantissimi in cui entravo in contatto con la natura della terraferma facendo scoperte fondamentali per la mia formazione, già allora fortemente orientata agli aspetti naturali e scientifici, interesse molto anomalo per una ragazzina della mia età. Per vincere la noia ogni anno era dedicato per gran parte ad un tema specifico: lo studio degli insetti, la coltivazione delle piante, la caccia con la fionda a poveri uccellini e alle lucertole, la cura degli animali da cortile, la pesca, il nuoto nel fiume e così via.
In quell’estate dei miei dieci anni studiai il mistero della riproduzione: a quel tema io e Silvana ci dedicammo con una sistematicità e distanza emotiva propria dell’indagine scientifica, senza alcuna morbosità. Osservavamo gli animali, prendevamo appunti, facevamo disegni sugli accoppiamenti. Realizzai che per tutti gli animali esistevano solo due priorità, il cibo e il sesso, in alcuni periodi in ordine inverso. Conigli, pollame, ovini, bovini, equini e cani si saltavano addosso con molto piacere, ………………..
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